Luca Roncoroni
Guglielmo Bruno, in arte Willie Peyote, in meno di un decennio ha sviluppato un percorso che lo ha portato dal suonare il basso in una punk band fino a essere ospite in tv di Fabio Fazio e a firmare con la Universal. Oggi è uno dei nomi più lanciati e in vista della scena. Sì, ma quale scena? La sua dimensione ibrida, il suo essere guardato con distacco e scetticismo dai puristi di tutti i generi in cui potrebbe essere infilato, denotano una difficoltà cronica nell’inscatolarne la proposta entro contorni rigidamente definiti. Il suo è un hip hop “suonato”, un rap che guarda anzitutto alla grande tradizione dei cantautori degli anni Settanta, il tutto pasturato da un tiro molto pop e da un approccio indie che gli hanno spesso portato accuse di hipsterismo. I suoi testi prendono argomenti complessi e contraddittori e li portano al grande pubblico, rendendoli potabili e apparentemente semplificandoli. Ma dove sta esattamente il confine tra bravura e furbizia, tra fluidità e opportunismo? Attraverso l’analisi dei suoi dischi e dei suoi testi, dall’esordio il manuale del giovane nichilista alla conferma non è il mio genere, il genere umano, passando per i sorprendenti educazione sabauda e sindrome di tôret, fino al debutto su major con iodegradabile, in Basta etichette si cerca di capire dove e come collocare un autore che è stato preso come alfiere della Sinistra ed è stato etichettato costantemente per tutta la sua carriera. Provando, per una volta, ad abbattere i compartimenti troppo stagni di certa critica musicale.