«La crisi consiste nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati».
Secondo Étienne Balibar, l’immagine drammatica dell’interregno evocata da Antonio Gramsci nel celebre passo si presta bene a raffigurare il presente di un’Europa che sta sopravvivendo alla propria agonia, invischiata in una logica di disfacimento dagli esiti impredicibili. Perché, nel contesto attuale irreversibilmente globalizzato, la fine parrebbe già avvenuta.
«L’Europa è morta come progetto politico, a meno che non riesca a rifondarsi su nuove basi».
La costruzione politica europea si è inceppata sulle sue contraddizioni irrisolte: sul dogma neoliberista della cosiddetta concorrenza non falsata, che ha esaltato l’antagonismo permanente degli interessi e ha rinsaldato le posizioni dominanti, con enormi costi sociali; sulla divisione dei poteri tra istituti comunitari e Stati membri, che ha consentito a ciascuna parte di invocare la propria irresponsabilità e ha scatenato al tempo stesso reazioni nazionalistiche; sulla questione delle frontiere esterne, già rese fluide dalla compresenza di organismi e aree che includono alcuni Stati e non altri – dallo spazio Schengen all’eurozona –, e adesso diventate il luogo dell’impossibile demarcazione tra Nord e Sud, dove si decidono le sorti di masse crescenti di migranti, «esseri umani senza Stato» che reclamano il loro «diritto ad avere dei diritti». Sembra che dell’Unione europea restino soltanto uno pseudofederalismo oligarchico e una moneta unica strumento dei mercati finanziari, mentre dovunque riprendono vigore un malinteso sovranismo e chiusure identitarie a tinte populiste e xenofobe.
Eppure Balibar, tra i più acuti critici delle politiche comunitarie e dei loro effetti devastanti, primo fra tutti il trattamento iugulatorio del debito greco, ha buone ragioni per continuare a dirsi europeista. Quell’«entità plastica e incompiuta» che chiamiamo «Europa» può ancora trovare il suo momento costituente e federatore attraverso la «democratizzazione della democrazia», una rivoluzione dal basso che ridefinisca la cittadinanza stessa e preveda salutari contropoteri, recuperando il valore strategico della contestazione civile.
Secondo Étienne Balibar, l’immagine drammatica dell’interregno evocata da Antonio Gramsci nel celebre passo si presta bene a raffigurare il presente di un’Europa che sta sopravvivendo alla propria agonia, invischiata in una logica di disfacimento dagli esiti impredicibili. Perché, nel contesto attuale irreversibilmente globalizzato, la fine parrebbe già avvenuta.
«L’Europa è morta come progetto politico, a meno che non riesca a rifondarsi su nuove basi».
La costruzione politica europea si è inceppata sulle sue contraddizioni irrisolte: sul dogma neoliberista della cosiddetta concorrenza non falsata, che ha esaltato l’antagonismo permanente degli interessi e ha rinsaldato le posizioni dominanti, con enormi costi sociali; sulla divisione dei poteri tra istituti comunitari e Stati membri, che ha consentito a ciascuna parte di invocare la propria irresponsabilità e ha scatenato al tempo stesso reazioni nazionalistiche; sulla questione delle frontiere esterne, già rese fluide dalla compresenza di organismi e aree che includono alcuni Stati e non altri – dallo spazio Schengen all’eurozona –, e adesso diventate il luogo dell’impossibile demarcazione tra Nord e Sud, dove si decidono le sorti di masse crescenti di migranti, «esseri umani senza Stato» che reclamano il loro «diritto ad avere dei diritti». Sembra che dell’Unione europea restino soltanto uno pseudofederalismo oligarchico e una moneta unica strumento dei mercati finanziari, mentre dovunque riprendono vigore un malinteso sovranismo e chiusure identitarie a tinte populiste e xenofobe.
Eppure Balibar, tra i più acuti critici delle politiche comunitarie e dei loro effetti devastanti, primo fra tutti il trattamento iugulatorio del debito greco, ha buone ragioni per continuare a dirsi europeista. Quell’«entità plastica e incompiuta» che chiamiamo «Europa» può ancora trovare il suo momento costituente e federatore attraverso la «democratizzazione della democrazia», una rivoluzione dal basso che ridefinisca la cittadinanza stessa e preveda salutari contropoteri, recuperando il valore strategico della contestazione civile.
Dettagli libro
-
Editore
-
Lingua
Italiano -
Lingua originale
Francese -
Data di pubblicazione
-
Numero di pagine
323 -
Argomento
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Collana
Sull'autore
Étienne Balibar
Étienne Balibar è professore emerito dell’Università di Paris X-Nanterre e insegna presso la University of California di Irvine. È tra i più autorevoli filosofi della politica contemporanei. Tra i suoi ultimi saggi: Europe, constitution, frontière (2005), Violence et civilité. Wellek Library Lectures et autres essais de philosophie politique (2010), La Proposition de l’égaliberté. Essais politiques 1989-2009 (2010), Citoyen sujet et autres essais d’anthropologie philosophique (2011) e Des Universels. Essais et conférences (2016). In traduzione italiana: Leggere il Capitale (con Louis Althusser, 1971), Razza, nazione, classe. Le identità ambigue (con Immanuel Wallerstein, 1991), Per Althusser (1991), Le frontiere della democrazia (1993), Spinoza e la politica (1996), La paura delle masse. Politica e filosofia prima e dopo Marx (2001), L’Europa, l’America, la guerra (2003), Noi cittadini d’Europa? Le frontiere, lo Stato, il popolo (2004) ed Europa paese di frontiere (2007). Presso Bollati Boringhieri sono usciti Cittadinanza (2012), Crisi e fine dell’Europa? (2016) e Gli universali. Equivoci, derive e strategie dell'universalismo (2018).