«Un pullulìo di ex, dentro il quadro strategico di una frettolosa riconversione materiale e mentale: come Cesare Battisti, “social-patriota” di sinistra; Leonida Bissolati, social-patriota di destra; Agostino Gemelli, da positivista figlio di mangiapreti a bulimico consacratore dell’esercito al Sacro Cuore di Gesù; Benito Mussolini, da neutralista arrabbiato a spregiudicato araldo dell’Intervento; e infine l’idea stessa della guerra, da quella passiva e coercitiva di Cadorna a quella duttile e persuasiva di Diaz. D’altronde, in quegli anni si consuma in Italia un passaggio storico d’ordine generale: dalla società dei notabili alla società di massa».
Tra il giugno 1914 e il maggio 1915 l’Italia operò un clamoroso ribaltamento delle sue alleanze internazionali, che condusse alla decisione di dichiarare guerra all’Austria e alla Germania. Si trattò di una riconversione non solo militare, ma anche politica, culturale e ideale, fatta di abdicazioni, di trasfigurazioni, di palinodie e di abiure d’ogni sorta. La trasfigurazione dall’Italia triplicista alleata di Francesco Giuseppe a quella irredentista protesa alla liberazione di Trento e Trieste comportò la conversione dell’immagine della Germania da modello ad antimodello; l’eclissi dell’internazionalismo socialista e il conseguente passaggio al nazionalismo di settori importanti dell’opinione di sinistra, repubblicana, mazziniana; la trasformazione dei cattolici da intransigenti nemici dello Stato a clerico-patrioti; il completo riassetto degli equilibri interni alla classe dirigente liberale. In quella concitata transizione, si consumava il passaggio storico dalla società dei notabili alla società di massa. Così, i dieci mesi di maturazione dell’entrata in guerra trascorsero all’insegna di un clamoroso dualismo. Da un lato, avanzava sulla scena un nuovo, tumultuoso coacervo di minoranze, un labirinto di comitati mobilitati per la guerra che, mettendo in mora il Parlamento, si affermava come politicamente egemone, sempre più minaccioso nei confronti di chi alla guerra si dichiarava contrario. Dall’altro lato, continuava a esistere, quantitativamente forse maggioritaria, un’Italia composta di pura e semplice lontananza ed estraneità alla politica, un blocco d’ordine che contribuiva a rafforzare i poteri di un modesto governo di centro-destra, non certo pensato per così grandi compiti. Le risorse principali cui attingere per schierare le truppe in questa situazione appartenevano in larga misura al campo della disciplina e dell’ubbidienza. Anche per questa via più modesta – e a bassa temperatura – si supponeva che i tricolori potessero scaldare le menti e i cuori. Una volta ottenuto l’effetto desiderato e forzato il passaggio dalla pace alla guerra, queste risorse minimali si sarebbero rivelate essenziali al fine di ottenere che le masse militari rimanessero il più possibile ancorate alla «religione della patria» e al «senso del dovere» di coloro a cui spetta di comandare. E così, dopo il 24 maggio, il coinvolgimento dei cittadini attivi e politicizzati viene messo decisamente alla porta, lasciando il posto alle logiche della coercizione e dell’ubbidienza – sostenute e incoraggiate da una schiera di sacerdoti prontamente inviati al fronte –, unici strumenti con cui tenere a freno forme di obiezione e contrasto rispetto a una morte «assurda» che solo in una nuova «fede» patriottica può trovare la sua giustificazione. Ma in vista di Caporetto e dopo, nell’ultimo anno di guerra, le retoriche dell’ubbidienza e della passività rassegnata non basteranno più, e si torna questa volta per tutti a fare appello alle risorse del civismo e della politica, ridando protagonismo all’immaginario, alla parola e alle idee.Book details
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Italian -
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288 -
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