Allo scoppio della pandemia, la vita urbana si è fermata. Strade deserte, bar chiusi, uffici vuoti. Confinati tra le mura domestiche, ci siamo chiesti: che senso ha vivere in città? Due anni dopo la domanda è ancora aperta.
Fino all'inizio del 2020 la nostra idea di futuro era dominata dalle città, questi labirinti di grattacieli sfavillanti e strade trafficate, allo stesso tempo termitai di lavoratori e Disneyland per turisti low-cost. La mutazione era avvenuta nel corso dei secoli, accelerando negli ultimi decenni: lo spazio urbano era ormai il baricentro economico dei territori, il polo magnetico della produzione e della creatività, la fucina delle tendenze. Di anno in anno, i piccoli comuni si svuotavano e le città medie e grandi crescevano a dismisura. Certo, c'erano dei lati negativi: la gentrificazione selvaggia spingeva gli strati più poveri della popolazione verso periferie sempre più simili a ghetti e dormitori per pendolari, mentre lo sviluppo della mobilità pubblica non sembrava in grado di contrastare davvero la crescita costante dell'inquinamento. Ma questi e altri problemi sembravano un contrattempo momentaneo, semplici effetti collaterali che amministrazioni sapienti avrebbero mitigato e, prima o poi, rimosso. Il Covid, e soprattutto il lockdown, sono arrivati come uno shock, beffandosi proprio di chi stava vivendo il grande sogno futuribile della città e si è ritrovato a pagare affitti stellari per starsene murato in monolocali claustrofobici, mentre gli amici in provincia salutavano via Zoom dalle loro belle e quiete case con giardino, o magari vista mare. Ogni certezza urbanistica e sociologica, di colpo, è crollata, mentre lo smart working diventava pian piano la norma e il dogma della concentrazione urbana si rivelava un'idea vecchia, da ripensare completamente per arginare l'improvvisa fuga dalla città. Ma ora, più di due anni dopo: lo abbiamo fatto davvero? Le città stanno ritrovando il senso perduto nel trauma della pandemia? Bertram Niessen alterna sapientemente lo sguardo freddo del sociologo, il piglio dell'agitatore culturale e l'attitudine pragmatica di chi da anni lavora come esperto accompagnatore di trasformazioni urbane. Se la modernità è per definizione sempre più liquida, le città sono specchi d'acqua: le spinte e le controspinte economiche, le trasformazioni sociali e politiche ne agitano la superficie senza sosta, creando vortici spaventosi e seducenti. Resta da capire se è possibile, oggi e ancor più domani, trovare il modo di Abitare il vortice.
Fino all'inizio del 2020 la nostra idea di futuro era dominata dalle città, questi labirinti di grattacieli sfavillanti e strade trafficate, allo stesso tempo termitai di lavoratori e Disneyland per turisti low-cost. La mutazione era avvenuta nel corso dei secoli, accelerando negli ultimi decenni: lo spazio urbano era ormai il baricentro economico dei territori, il polo magnetico della produzione e della creatività, la fucina delle tendenze. Di anno in anno, i piccoli comuni si svuotavano e le città medie e grandi crescevano a dismisura. Certo, c'erano dei lati negativi: la gentrificazione selvaggia spingeva gli strati più poveri della popolazione verso periferie sempre più simili a ghetti e dormitori per pendolari, mentre lo sviluppo della mobilità pubblica non sembrava in grado di contrastare davvero la crescita costante dell'inquinamento. Ma questi e altri problemi sembravano un contrattempo momentaneo, semplici effetti collaterali che amministrazioni sapienti avrebbero mitigato e, prima o poi, rimosso. Il Covid, e soprattutto il lockdown, sono arrivati come uno shock, beffandosi proprio di chi stava vivendo il grande sogno futuribile della città e si è ritrovato a pagare affitti stellari per starsene murato in monolocali claustrofobici, mentre gli amici in provincia salutavano via Zoom dalle loro belle e quiete case con giardino, o magari vista mare. Ogni certezza urbanistica e sociologica, di colpo, è crollata, mentre lo smart working diventava pian piano la norma e il dogma della concentrazione urbana si rivelava un'idea vecchia, da ripensare completamente per arginare l'improvvisa fuga dalla città. Ma ora, più di due anni dopo: lo abbiamo fatto davvero? Le città stanno ritrovando il senso perduto nel trauma della pandemia? Bertram Niessen alterna sapientemente lo sguardo freddo del sociologo, il piglio dell'agitatore culturale e l'attitudine pragmatica di chi da anni lavora come esperto accompagnatore di trasformazioni urbane. Se la modernità è per definizione sempre più liquida, le città sono specchi d'acqua: le spinte e le controspinte economiche, le trasformazioni sociali e politiche ne agitano la superficie senza sosta, creando vortici spaventosi e seducenti. Resta da capire se è possibile, oggi e ancor più domani, trovare il modo di Abitare il vortice.
Dettagli libro
-
Editore
-
Lingua
Italiano -
Data di pubblicazione
-
Argomento